giovedì 26 marzo 2020

Saper stare di fronte al mistero/Mistero

Nel museo civico di Breno (Provincia di Brescia) è conservata una tavoletta di ardesia sulla quale è raffigurato un giovane che fugge davanti alla morte rappresentata in piedi su un carro trainato da un cavallo nero. Il giovane è rivolto verso la morte, le braccia alzate quasi a difendersi, il volto terrorizzato, ma non si accorge che alle sue spalle si staglia una parete rocciosa, che gli impedirà la fuga. Ineluttabilità della morte, richiamata dalle molte danze macabre che nei territori vicino a Brescia (Clusone, Pinzolo) sono ancora ben visibili. L’immagine di Breno non si sofferma però sull’universalità della morte, bensì sull’inutile fuga di fronte a essa.
Potrebbe sembrare cinismo riferirsi a questa immagine nella situazione che stiamo vivendo, non dissimile da quella che le danze macabre rispecchiavano. Eppure in quella tavoletta si può trovare un ammonimento. La morte insegue e raggiunge: la si vorrebbe programmare, come nel film Il settimo sigillo Ingmar Bergmann ci mostrava, profeticamente, facendola giocare a scacchi con il cavaliere (l’attore Max von Sidow scomparso la settimana scorsa).
Profeticamente, perché nel 1957, anno di uscita del film, non si era ancora giunti a ipotizzare di prolungare la vita umana fino a cinquemila anni o a sconfiggere la morte definitivamente. Eventualmente si incominciava ad occultarla: la memoria delle devastazioni belliche era ancora troppo viva, e il fervore della ricostruzione tentava di nascondere il nemico che aveva provocato tanto dolore. Forse non è un caso che in questi giorni risuoni frequentemente l’espressione “Siamo in guerra”, e si ritorni a parlare di trincee, di fronti. Le parole che si usano portano in sé memorie sopite e perfino appositamente nascoste. Sì, siamo in guerra.
Ma il nemico che si è presentato non è il virus, bensì la morte. Ed è con questa che si devono fare i conti. I canti alle finestre, gli applausi agli operatori sanitari, i lumini accesi sui balconi, sono tentativi per dichiarare che “ce la faremo”. Rischiano però di far dimenticare che il carro avanza ineluttabile e svela la nostra nativa fragilità. Prendere consapevolezza di questa aiuta a diventare sapienti, cioè capaci di riscoprire che le nostre parziali vittorie non sono ancora la vittoria. Questa ci può essere solo donata dalla Fonte della vita, alla quale siamo invitati ad affidarci. Poterlo fare è grazia, perché ridona forza alla speranza e fa rinascere coraggio.
Ed è grazia anche capire che quanto sta accadendo non è castigo di Dio. L’idea del castigo si sta diffondendo, purtroppo. E nasce da una concezione di Dio giustiziere, che tratta i suoi figli secondo i meriti. Innegabile che siamo tutti, chi più e chi più più, peccatori (Papa Francesco non si stanca di ricordarlo), ma Dio, come si è fatto conoscere in Gesù, è anzitutto preoccupato che i suoi figli possano vivere in pienezza: la prassi di Gesù è risanatrice, non punitrice.
Quando i discepoli domandano a Gesù se un uomo sia cieco a causa dei peccati suoi o dei genitori, Gesù risponde che non è questo il motivo della malattia; la malattia è occasione affinché si manifesti la gloria di Dio mediante la guarigione che Gesù stesso opera; questa culmina però nell’incontro con la Luce, che è Gesù stesso. Da Lui si può attingere luce anche in questa situazione. Tuttavia senza scorciatoie: la fretta di capire crea illusioni. Chi frettolosamente dichiara che quanto stiamo vivendo è castigo di Dio dimentica il limite umano che stiamo sperimentando. Saper stare di fronte al mistero, che solo gradualmente si dipana, è occasione per consegnarsi al Mistero. Ed è sapienza.

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